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Tra benefici e hype: la scienza della meditazione mindfulness

Tra benefici e hype: la scienza della meditazione mindfulness

La meditazione mindfulness ha sperimentato un’enorme crescita di attenzione negli ultimi anni. In giro non è difficile trovare lodi, elenchi di benefici, libri, e app-guida come Headspace, Waking Up, e Medito. Ciò ha portato sempre più persone a interessarsi e avvicinarsi a questa pratica, me compreso.

Ma come stanno le cose, c’è del vero o è tutto hype?

Con l’obiettivo di rispondere a questa domanda sono andato a documentarmi: ho cercato nella letteratura scientifica metanalisi che mi aiutassero a capire cosa sa la scienza sull’argomento. In questo articolo riassumo quello che ho capito.

Meditazione mindfulness: cos’è?

Andando indietro nel tempo troviamo tipi diversi di pratiche meditative in tradizioni diverse. La mindfulness, in particolare, origina nella tradizione buddista.

Eppure, a dispetto della storia millenaria di questa tradizione, se volessimo definirla in maniera precisa e univoca incontreremmo qualche difficoltà. Torneremo sulla questione più avanti in questo stesso articolo, ma per il momento possiamo usare una definizione che viene spesso presa a riferimento:

La mindfulness è consapevolezza momento per momento, coltivata prestando attenzione, nel momento presente, nel modo più non reattivo, non giudicante, e sincero possibile.

L’approccio di molte guide e app consiste nell’istruire a prestare attenzione a ciò che succede qui e ora, prendendo consapevolezza dei propri pensieri, sensazioni, ed emozioni e osservandoli in maniera distaccata.

Per facilitare questo compito, che è sorprendentemente molto più difficile di quello che sembra, si fa spesso uso di ancore come il respiro e le sensazioni corporee. Ci si sforza di prestare attivamente attenzione a qualcosa che sta accadendo, in modo che questo aiuti a concentrarsi su ciò che avviene ora nella realtà, piuttosto che unicamente nella nostra testa.

Effetti positivi

Tra i vari effetti positivi riportati spicca l’impatto che la mindfulness sembrerebbe avere sulla depressione. Molteplici studi presentano evidenze di abbassamento dei livelli di depressione a confronto con gruppi sottoposti ad altri tipi di trattamento, come la normale terapia, il supporto, e la gestione dello stress.

In generale ci sono prove che suggeriscono che la meditazione possa migliorare la capacità di regolare le proprie emozioni e a contrastare diverse tipologie di influenze negative sul benessere: non solo depressione, ma anche ansia, stress, e dolore.

In alcune occasioni i miglioramenti riscontrati sono stati simili a quelli ottenuti tramite l’uso di antidepressivi, ma senza le potenziali tossicità derivanti dall’uso di farmaci.

In ogni caso non ci sono prove che la mindfulness aiuti a migliorare la salute mentale qualora questa sia già buona, né che abbia risultati migliori di altri trattamenti attivi (farmaci, esercizio fisico, altre terapie comportamentali).

Una seconda classe di effetti positivi riguarda quelli relativi all’attenzione.

L’attenzione viene spesso suddivisa in tre componenti:

  • alerting: la prontezza nel prepararsi per uno stimolo imminente
  • orienting: la selezione di informazioni specifiche a fronte di una varietà di stimoli
  • executive attention: monitoraggio e risoluzione di conflitti tra diversi pensieri, risposte, ed emozioni possibili

Relativamente a queste tre componenti ci sono alcune evidenze che mettono in relazione i primi tempi di esperienza meditativa con miglioramenti di orienting ed executive attention, e le fasi più avanzate con miglioramenti di alerting.

L’ultima classe di effetti a cui mi sono interessato riguarda la qualità del sonno. In questo caso sembra esserci qualche evidenza che suggerisce che la meditazione possa migliorare la situazione per soggetti che presentano disturbi del sonno.

Alterazioni nel cervello

Agli studi sui benefici si affianca tutta una serie di studi riguardanti gli effetti sulla struttura cerebrale. È lecito infatti aspettarsi dei cambiamenti a seguito di una pratica focalizzata sull’attenzione e che si svolge interamente nella mente.

Su questo fronte in chi medita sono state osservate, tramite tecniche di neuroimaging (e.g. fMRI), alterazioni sia nella materia grigia che in quella bianca, per esempio in corteccia frontopolare, cortecce sensoriali, ippocampo, corteccia cingolata mediana e anteriore, corteccia orbitofrontale, e connessioni dentro e tra gli emisferi.

Queste zone sono associate a funzioni quali:

  • meta-consapevolezza, cioè la consapevolezza di essere consapevoli
  • consapevolezza del corpo, sia rispetto agli stimoli interni che a quelli esterni
  • consolidamento e riconsolidamento dei ricordi nella memoria a lungo termine
  • regolazione di comportamento ed emozioni
  • comunicazione dentro e tra gli emisferi

La correlazione tra meditazione e alterazioni comunque non implica un rapporto di causa-effetto e, anche nel caso in cui questo ci fosse, la meditazione potrebbe non essere la causa. Ci sarebbe la possibilità che sia vero il contrario e cioè alterazioni pregresse potrebbero predisporre maggiormente chi le presenta a interessarsi alla meditazione.

È tutto hype?

I risultati elencati fin qui potrebbero fornire una motivazione sufficiente per convincersi dell’efficacia della meditazione. Se ci fermassimo a questo punto potremmo anche giustificare parte della diffusa eccitazione che circonda l’argomento.

Purtroppo però questi risultati sono tutt’altro che chiari e definitivi. La meditazione rimane un ambito di ricerca relativamente nuovo e ogni metanalisi che ho letto presenta sempre lo stesso disclaimer, che più o meno è:

Ci sono delle evidenze ma servono più studi

Perché? Quali sono i problemi della ricerca attuale?

  1. L’assenza di una definizione esatta
  2. La dubbia validità delle misure
  3. Le incertezze sull’utilizzo in ambito clinico
  4. I possibili effetti avversi
  5. La difficoltà nell’interpretazioni dei dati

1. Davvero, cos’è la mindfulness?

Come promesso all’inizio torniamo a parlare del problema della definizione. Il fatto che ne manchi una precisa e ampiamente accettata è il primo, e forse il più grosso, dei problemi della ricerca attuale.

Da questa ambiguità segue che ogni studio, pur dichiarando di parlare di mindfulness, può differenziarsi dagli altri in una molteplicità di aspetti, come le tecniche usate, la durata, le indicazioni fornite dagli istruttori, la percezione di chi pratica, e la definizione di cosa significhi essere esperto.

In una situazione di questo tipo i risultati diventano di difficile interpretazione e confronto, dato che è difficile capire esattamente a cosa si riferiscono. I partecipanti hanno una definizione coerente tra loro e con i ricercatori? La definizione usata nello studio è coerente con le modalità con cui è stato condotto? Stiamo parlando di meditazione mindfulness o di un significato più esteso dell’aggettivo “mindful”?

Superare questo primo ostacolo significa sviluppare una metodologia che sia in grado di evidenziare le differenze tra le varie tecniche e che quindi permetta di identificare con esattezza la pratica a cui ci si riferisce.

2. Quanto sono valide le misure?

Anche a causa dell’ambiguità nella definizione, mancano misure sufficientemente validate di “mindfulness”. Senza misure non è possibile valutare né quanto questa abilità si evolva, né come influenzi altre capacità cognitive.

Ad oggi studi diversi si basano su misure diverse e in gran parte vengono usati questionari. Ogni soggetto potrebbe avere una propria idea di cosa significhi essere mindful. Per esempio un novizio potrebbe confondere l’essere mindful con la voglia di essere mindful. In generale il soggetto potrebbe non sapere esattamente quali fattori dell’esperienza meditativa tenere in considerazione quando risponde alle domande.

A ciò si aggiunge un potenziale bias di desiderabilità sociale dovuto al fatto che le malcelate aspettative degli sperimentatori riguardo ai benefici, potrebbero indurre nei partecipanti il desiderio che queste speranze si avverino.

In ogni caso una valutazione oggettiva dello stato di mindfulness sembra difficoltosa, perché non è possibile che ci sia un osservatore esterno a controllare cosa sta accadendo nella mente del soggetto. Piuttosto, si potrebbe passare a misurare risultati indiretti, come le facoltà mentali che supportano l’essere mindful o la media dei risultati dei terapisti che prescrivono la mindfulness ai propri pazienti.

3. Si può usare come metodologia di intervento clinico?

Un’altra classe di incertezze riguarda proprio l’applicabilità come intervento in ambito clinico. Diversi studi hanno indagato se e in che modo la mindfulness possa essere usata per contrastare problemi fisici e mentali, tra cui depressione, stress, e ansia di cui parlavamo sopra.

Un primo problema riguarda il fatto che la gran parte degli studi si è fermata ai primi passi del modello in 5 fasi per lo sviluppo di interventi comportamentali delineato dal NIH. Solo il 30% degli studi è andato oltre la fase 1, solo il 20% è arrivato alla fase 2a e solo il 9% alla fase 2b. Infine, solo l'1% di tutta la ricerca è stato condotto fuori da un contesto di ricerca, il che rende dubbia l’applicabilità dei risultati nella normale pratica clinica.

Un altro problema concerne la variabilità di trattamenti utilizzati. Il “gold standard” è stato un corso di 8 settimane con: 20–26 ore di training in 8 lezioni di gruppo settimanali, una lezione all-day da 6 ore, e 45 minuti al giorno di pratica a casa per 6 giorni a settimana. Sono state usate però anche molteplici variazioni nel contenuto e nella forma.

In sostanza, anche se ci sono evidenze a suggerire che tecniche di intervento basate sulla mindfulness (MBI) possano aiutare se usate in ambito clinico, le prove sono tutt’altro che definitive.

4. Ci sono controindicazioni?

La mindfulness può avere effetti negativi?

Se alla domanda sui benefici, che ancora non ha risposta definitiva, si è comunque cercato di rispondere, quella sui potenziali effetti avversi è invece molto poco sondata. Eppure ci potrebbero essere effetti non solo diretti, ma anche indiretti.

Ci solo alcuni casi riportati di effetti avversi, ma spesso in studi osservazionali e senza gruppo di controllo. Inoltre non sempre è presente il dettaglio della storia clinica dei soggetti e quindi non si conoscono le condizioni preesistenti.

In generale non c’è stata molta attenzione sulla questione. Per esempio in oltre il 75% dei trial non veniva chiesto esplicitamente di riportare effetti avversi, ma ci si basava su quanto riportato spontaneamente, il che risulta in una quasi certa sottostima.

Dalla non evidenza di effetti negativi si è arrivati alla conclusione che non ce ne siano e che la mindfulness possa essere usata al posto dei farmaci nel trattamento di malattie mentali come la depressione e il disturbo bipolare. Queste conclusioni però si basano più sulla mancanza di ricerca che non su prove significative.

Inoltre, i benefici prospettati e potenzialmente esagerati possono sviare pazienti con malattie serie, portandoli a pensare di poter usare la meditazione in sostituzione di altri trattamenti validati scientificamente, come l’esercizio fisico, la psicoterapia, o i farmaci.

5. Le interpretazioni dei dati sono affidabili?

Come accennavamo sopra, c’è un filone di ricerca sulla mindfulness che si è occupato di studiarla dal punto di vista puramente quantitativo delle alterazioni del cervello, visibili tramite tecniche di neuroimaging.

Interpretare questi dati, però, non è semplice. Non è detto che le immagini ricavate forniscano una visione accurata di tutto ciò che avviene. Alcune deduzioni si basano su medie ottenute a partire da gruppi di partecipanti cosa che, unita agli altri problemi che affliggono questo ambito di ricerca, può risultare in valutazioni semplicistiche.

Inoltre potrebbero essere presenti artefatti o differenze dovute a fattori irrilevanti. Se per esempio i novizi tendono a muoversi di più o a respirare più velocemente degli esperti, le immagini potrebbero presentare differenze non attribuibili alla meditazione in sé.

Un altro problema riguarda il calcolo di stime valide. Quando una differenza inizia a diventare significativa? E anche ammesso di saper rispondere a questa domanda, quale impatto funzionale ha una differenza di questo tipo? E quanto buono è questo impatto rispetto ad altri metodi di allenamento cognitivo?

Quindi, anche in questo caso, benché i dati finora ottenuti sembrino suggerire alterazioni nel cervello e nel funzionamento neurale, serve cautela nell’interpretazione.

Meditare o non meditare?

La ricerca sulla meditazione mindfulness da un lato ha prodotto alcune evidenze di benefici, ma dall’altro si trova a dover affrontare una serie di ostacoli che attualmente ci impediscono di trarre conclusioni definitive.

Che fare nel frattempo?

Dal canto mio penso che chiunque abbia problemi reali, quali disturbi mentali o fisici, debba continuare a rivolgersi al proprio medico di riferimento e non sperare troppo che la meditazione sia una soluzione magica. In assenza di prove solide è meglio ricorrere a terapie dimostratamente efficaci.

Per quanto riguarda tutte le altre applicazioni, la meditazione può costituire un interessante esperimento personale che si merita almeno un’opportunità. Avendo ripreso da poco, mi ha aiutato quantomeno a notare la confusione incessante che regna nella mia testa.

Buona sperimentazione 🧘

Fonti